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Formare chi cura – di Margherita Gallina

Formare chi cura – di Margherita Gallina

Formare chi cura: in questi giorni così difficili possiamo ancora una volta volgere uno sguardo riconoscente alle assistenti familiari che si occupano dei nostri anziani e delle persone più fragili nelle loro case. L’articolo che vi proponiamo, anche se risale a dieci anni fa, è quanto mai attuale e rende merito al loro impegno svolto spesso in solitudine e alla sensibilità e vicinanza affettiva che mostrano, in questo momento anche con grave rischio personale.

Vizi esemplari e improbabili virtù

In un bellissimo romanzo del 1990- “La cattiva figlia” – Carla Cerati narra il difficile rapporto tra una figlia e la madre ultraottantenne. La sua analisi lucida e priva di concessioni benevole affronta i nodi irrisolti e le incomprensioni tra le due donne, mettendo in evidenza l’inconciliabilità tra il bisogno della figlia di vivere liberamente la propria vita, dopo aver accudito i propri figli, e l’obbligo di sostenere la madre sempre più indifesa e da lei dipendente. La pietà di fronte alla madre inerme non stempera le fatiche del compito, né l’insofferenza che ha origini lontane nel tempo.
L’angoscia assale la protagonista soprattutto perché deve far fronte all’orrore della decadenza fisica, allo sconcerto della morte incombente, cui non era preparata, evocata dalla vista del corpo della madre, che, per tradizione, ritiene “naturale” che la figlia la lavi, nonostante la cultura d’appartenenza avesse impedito sino ad allora la vista di qualsiasi nudità, nonché l’instaurarsi di ogni intimità fisica tra loro.

Un altro racconto recente di Coetzee, ambientato in Australia, affronta l’esperienza complessa e tormentata di un uomo maturo, ma non ancora anziano, reso improvvisamente dipendente dagli altri a causa degli esiti di un incidente. Dopo alcune esperienze conflittuali con alcune assistenti – che l’uomo rifiuta perché lo umiliano rimarcando la sua condizione con atteggiamenti di infantilizzazione che nulla hanno a che fare con l’inabilità contratta – una badante croata si occupa di lui e tra loro si stabilisce un legame di fiducia e correttezza, inattaccabile anche dalle pulsioni del desiderio e dal carattere irascibile del protagonista, grazie alla capacità della donna di conferire una giusta misura al loro rapporto.
Sono trascorsi solo quindici anni tra i due contributi e, come spesso accade in letteratura, propongono in chiave romanzata uno spaccato dell’attualità intelligente e spietato.
Le soluzioni differenti proposte dai due racconti, a fronte dell’univoca questione di occuparsi di una persona disabile, rispecchiano il cambiamento imposto dalle diverse condizioni socioeconomiche, dai cambiamenti strutturali dell’organizzazione familiare e il riflesso che hanno avuto nei comportamenti e nelle scelte delle persone.

Ciò che accomuna entrambe le storie è l’inequivocabile opinione che il compito di cure è demandato alle donne, una sorta di inesorabile predestinazione siano esse familiari o professioniste, nonostante il percorso di emancipazione delle stesse dai compiti domestici e l’assunzione di responsabilità sociali nuove e aggiuntive.
Il sentire comune vuole sia tuttora un loro compito far fronte alle crisi fisiologiche del ciclo di vita familiare, e a tal fine sono utilizzati argomenti di natura etica (senso di responsabilità, del dovere nei confronti delle figure parentali) o di attitudine (capacità di cure, tratti caratteriali, propensione al sacrificio) o, a volte, sono chiamate in campo anche capacità “naturali” (competenze e sensibilità innate).

Altrettanto generale è l’opinione che queste virtù siano qualità assenti nell’universo maschile, cui solo negli ultimi anni si propone timidamente di farsi carico della prole nella prima infanzia, compito ben più gratificante di quello che aspetta chi deve accompagnare un’esistenza segnata dalla malattia e da un bisogno di cure che non vede all’orizzonte alcuna evoluzione, se non la morte.
Nel momento storico attuale si sta però verificando una trasformazione significativa anche in relazione a questo aspetto. L’ “improbabile virtù” dell’oblatività a tutti i costi, che ha generato mostruose relazioni intra-familiari, piene di rancori e risentimenti, sembra esser sostituita da un “vizio” che chiamerei esemplare.

Le cure possono essere interpretate ed espletate anche all’interno di un rapporto di lavoro e professionalizzare il compito non toglie necessariamente attenzione e qualità emotiva all’esperienza umana che intercorre tra le persone coinvolte. Occorre però sostenere questo processo ed accompagnarlo con opportuni provvedimenti, come cercherò di dimostrare in questo contributo, che riguardano i tre sistemi interessati: la badante, la famiglia e i servizi.

Formare chi cura: Il fenomeno delle badanti e le famiglie

La denominazione badanti entrata nell’uso comune non soddisfa appieno le qualità richieste a queste persone che più correttamente sono state definite “assistenti familiari”. Il primo termine evoca una funzione riduttiva, in cui prevale il compito di sorveglianza, attenta ma passiva, mentre il più rispettoso “assistente familiare” sembra voler presupporre l’idea di una collaborazione che include tutta la famiglia e qualifica la lavoratrice in relazione a competenze professionali ed esperienziali.
Il fenomeno delle assistenti familiari che si occupano di persone non autosufficienti (anziani, bambini e disabili) è diventato così diffuso e significativo da costituire l’intervento di assistenza prevalente, tanto più rilevante in quanto sinora esclusivamente trattato nell’ambito privato e privatistico delle famiglie.
Il lavoro di cura, le cui principali funzioni comprendono l’assistenza diretta a una persona in parte o del tutto non autosufficiente e il mantenimento e la cura del suo ambiente di vita, è nella maggioranza dei casi svolto da donne immigrate, per le quali tale impiego rappresenta sovente la principale se non l’unica opportunità di lavoro nel nostro paese, risolvendo al contempo anche la questione abitativa.
Raramente queste donne, che hanno provenienze culturali, età, percorsi professionali e scolatici e progetti migratori molto distanti, possiedono una formazione specifica nel campo dell’assistenza, anche se alcune di loro possono avere maturato competenze di cura di un familiare anziano all’interno         della propria famiglia        di origine.
Occuparsi quotidianamente, spesso in un contesto di stretta convivenza e intimità, della cura di una persona che non sia un proprio familiare, richiede tuttavia un impegno estremamente gravoso sia sul piano fisico sia sul piano emotivo.
Cercherò di elencare gli aspetti più complessi di questa attività rispetto ai quali ritengo semplicistica una lettura unidirezionale che afferma: “sono persone che a causa delle condizioni di povertà sono sfruttate dal mondo occidentale che, forte delle raggiunte condizioni di benessere, le allontana dagli impegni e dagli affetti delle famiglie d’origine delegando loro compiti di cura”.
Per diversi motivi ragioni ritengo riduttiva, anche se fondata su alcune verità, questa interpretazione: il primo relativo alle ragioni dell’emigrazione che a volte si fondano su un patto interno alla famiglia d’origine, un mandato che spesso è sovradeterminato da vincoli in cui si intersecano fattori sociali e interpersonali (ad esempio condizioni di povertà generalizzata e un mandato da parte delle generazioni anziane o della famiglia allargata ad alcuni membri della famiglia stessa), la seconda riflessione è relativa al fatto che la necessità di ricorrere ad aiuti esterni riguarda anche famiglie italiane con redditi modesti, appartenenti alla piccola borghesia; non siamo in presenza di un fenomeno associabile alla servitù nelle famiglie nobiliari d’altre epoche.
Ritengo pertanto che gli aspetti più delicati di questo rapporto accomunano sia le assistenti sia le famiglie e debbano e possano trovare risoluzione solo se si tiene conto di entrambi i poli del problema.

I confini
La coincidenza di spazio di vita e di lavoro genera una dimensione di grande intrusività negli spazi dei soggetti interessati alla relazione: l’anziano ed eventualmente altre persone conviventi e l’assistente. Il nucleo o la persona devono riformulare abitudini e stili di vita poiché l’ambiente non è più quello esclusivo dei familiari e la presenza di un’estranea, per quanto di fiducia e apprezzata per l’aiuto, toglie intimità e spontaneità alle persone. La stessa assistente familiare, per quanto possa avere a disposizione ambienti personali adeguati (ma non sempre accade) fatica non poco a differenziare tempi e spazi privati e lavorativi, è facile rischiare di essere sfruttate in qualsiasi momento, cedendo ad ogni richiesta nel timore di esser giudicate inflessibili o, al contrario, comportarsi in modo schematico e piattamente esecutivo. D’altro canto sappiamo quanto un atteggiamento eccessivamente disinibito da parte di alcuni membri della famiglia (non infrequente in anziani affetti da talune patologie) può ingenerare comportamenti scorretti e oltremodo molesti, che nulla hanno a che fare con la lecita confidenza e familiarità connesse alla vita in comune.

La solitudine
Il poco tempo libero a disposizione e l’emarginazione, vissuti soprattutto dalle assistenti che vivono sole con l’anziano bisognoso di cure, genera una situazione spesso “depressiva”, ostacolando l’instaurarsi di relazioni amicali, di scambi spontanei e l’apprendimento di lingua ed abitudini locali, strumento primo per consentire altre opportunità lavorative. A sua volta la famiglia vive in estremo isolamento la responsabilità di avere cura di un proprio caro e di essere datore di lavoro di una persona con cui spesso convive. E’ oltremodo difficile segnare il confine tra l’inevitabile vicinanza determinata dalla coabitazione e le funzioni di controllo connesse alla funzione “imprenditoriale”.
In questo compito poi il datore di lavoro spesso non ha riferimenti e sufficienti aiuti a sbrogliarsi nella complessità delle procedure burocratiche.

Le diversità speculari
Le differenze nelle condotte di vita, nelle consuetudini, e nelle modalità di comunicazione possono incidere sulla relazione di cura ed essere all’origine di incomprensioni.
L’assistente familiare vive in un contesto in cui si presentano dinamiche familiari sconosciute, in cui è difficile inserirsi senza annullare il patrimonio soggettivo di comportamenti, pratiche, stili relazionali, ma nello stesso tempo i familiari devono trovare la soglia di equilibrio che permetta loro di accettare le differenze senza doverle tollerare sempre. Inoltre, le assistenti condividono con i familiari le stesse esperienze emotive di senso di colpa, di frustrazione e di inadeguatezza, le une soprattutto per la separazione forzata dai figli e dai genitori lasciati nel paese d’origine, gli altri per sentirsi giudicati dal gruppo sociale d’appartenenza a causa della scelta di affidare un familiare a persone estranee.

Le competenze
Il senso di inadeguatezza incombe soprattutto in presenza di particolari patologie che fanno percepire l’impotenza del proprio agire.
Anche in questo caso spesso è un sentire comune sia dell’assistente sia dei familiari. Alcune patologie, che impediscono all’anziano di comunicare in modo adeguato i propri bisogni, generano insicurezza e frustrazione in chi è vicino: qualunque scelta sembra sbagliata o comunque manchevole e sia l’assistente sia le famiglie spesso non trovano nei servizi il necessario affiancamento informativo, ma soprattutto un sostegno di contenimento emotivo.
A questo si aggiunge che le stesse assistenti familiari sottovalutano l’importanza di una formazione specifica poiché attribuiscono alla personale esperienza sufficienti qualità oppure ritengono la formazione un impegno troppo gravoso o ancora un investimento eccessivo per una professione che è percepita solo come temporanea in attesa di migliori e diverse opportunità.

Formare chi cura: Lincertezza
Questa professione comporta anche il rischio della perdita improvvisa e contemporanea sia del lavoro sia dell’abitazione, a causa del decesso dell’anziano. Le potenzialità alte del mercato del lavoro non annullano l’incertezza che accompagna questo evento, dilatata dalla connessione dell’impiego con il rinnovo del permesso di soggiorno.
Sovente, però, anche la famiglia vive questa dimensione a causa di una frequente instabilità dell’assistente che cerca altre soluzioni lavorative/abitative e fa mancare la sua collaborazione. L’interruzione del rapporto, anche quando non è generata da conflitti con il datore di lavoro e si svolge all’interno delle regole previste, getta nello sconforto la famiglia che deve trovare una sostituzione e ripercorrere il processo di inserimento e affiatamento reciproco.
L’insicurezza ed instabilità sono esasperate dalla persistenza, purtroppo frequente, di rapporti di lavoro irregolari. La mancata assunzione regolare non è determinata solo da un atteggiamento inadempiente e fraudolento del datore di lavoro, a volte sono le stesse assistenti che, pur avendo i requisiti, chiedono di non essere regolarizzate perché in tal modo si propongono di avere un guadagno immediato maggiore e non sono motivate nel loro progetto di immigrazione a beneficiare dei contributi a fini pensionistici.

Con questi esempi ho voluto segnalare l’esistenza di un legame significativo tra assistente e datore di lavoro che, in quanto tale, può produrre effetti benefici se esplicitato ed elaborato, o sviluppare esiti di un vero e proprio “doppio legame” generando una comunicazione conflittuale. A mio avviso i servizi sociali possono e debbono avere una funzione determinante a sostegno di queste situazioni.

Formare chi cura: Il sistema dei servizi

Nelle esperienze riferite nei due testi di letteratura citati i servizi sociali non compaiono mai. E’ una costante in tutta la letteratura e filmografia che interpreta situazioni di bisogno, anche estremo, rappresentare la realtà come priva di qualsiasi riferimento organizzato a sostegno delle persone in difficoltà. Certamente è una forzatura dettata da esigenze drammatiche, non viviamo in una società preindustriale, ma in un certo senso ci sono zone d’ombra in cui i servizi sociali rischiano di non apparire mai.

La prima questione riguarda la visione riduttiva di “servizi sociali”. Se ci limitiamo a conferire dignità di servizio solo al sistema di aiuto pubblico che per sua natura, dati i vincoli finanziari, si rivolge solo ad alcune fasce di reddito, effettivamente dobbiamo ammettere che in questo campo offre ben poco.

Numericamente le persone direttamente assistite a domicilio non può che essere esiguo, così come la pura erogazione di buoni o vaucher, che pure non è generalizzabile, non sfiora neppure il nodo della riduzione nella sfera familiare privata dell’onere delle cure e delle scelte, nodo che per le famiglie è centrale e oltremodo gravoso.

La percezione da parte delle famiglie di un sistema debole spiega il successo delle tante iniziative promosse dall’associazionismo e dal volontariato. D’altro canto, sia pur meritevoli, queste organizzazioni non sempre propongono modelli e comportamenti adeguati dal punto di vista professionale, anche se di grande sollievo per i soggetti coinvolti nell’impegno di cure.

A sua volta il sistema di garanzie del mondo del lavoro (sindacati) si è finora tenuto ai margini della questione oscillando tra l’orientamento di rivendicazione a tutela dei diritti della lavoratrice regolare e la necessità di mantenere l’offerta concorrenziale grazie ad una certa flessibilità nella regolazione dei rapporti, ambivalenza insita nella contraddizione determinata dalla presenza di una grande maggioranza di lavoratori non regolarizzati.

La risposta forse scontata sembra essere in un sistema diffuso di responsabilità condivise, in un modello di messa in rete delle competenze e risorse di ciascun soggetto, nella chiarezza dei compiti.

Il sistema pubblico non può assistere come spettatore esterno e “neutrale” alle dinamiche di contrattazione, ritagliandosi un’area protetta solo per interventi gestiti direttamente, deve porsi l’obiettivo di:

  • Far emergere le situazioni irregolari di concerto con i sindacati
  • Tutelare e sostenere tutte le assistenti (regolari e no) poiché in tal modo risponde a bisogni dei cittadini
  • Garantire luoghi e tempi di formazione e supporto alle assistenti e ai familiari anche in collaborazione con il terzo settore (Cooperative di formazione o di mediazione culturale)
  • Favorire l’incontro domanda – offerta non solo come semplici elenchi di disponibilità, che non forniscono informazioni valide per il cliente, per rendere più accessibili le notizie qualitative in possesso delle reti informali (associazioni o gruppi spontanei non organizzati di cittadini extracomunitari o di famiglie) che attualmente sono l’unico soggetto di regolazione del mercato.

I sindacati devono a loro volta sostenere le famiglie nel loro compito di “datori di lavoro” sia per le procedure formali sia per concorrere alla definizione del profilo professionale. Il terzo settore potrebbe proporsi come mediatore nel rapporto di lavoro, ad esempio proponendo contratti in “job sharing”, ossia condivisi tra due o più assistenti, una formula che potrebbe rivelarsi interessante soprattutto per quelle situazioni che necessitano assistenza 24 ore su 24, troppo gravosa per una o due persone soltanto, mentre una forma di condivisione strutturata garantirebbe alle famiglia, a parità di oneri economici, continuità nell’assistenza e alle assistenti familiari il sollievo di esperienze di lavoro diversificate, prevenendo situazioni di “burn-out” dell’operatrice.

Formare chi cura – Bibliografia

Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976 –
https://www.adelphi.it/libro/9788845915352

Cerati C., La cattiva figlia, Frassinelli, Milano 1990
https://www.sperling.it/libri/la-cattiva-figlia-carla-cerati

Coetzee J., Slow man, Einaudi, Milano 2006

Quintavalle E., Il sostegno al lavoro di cure delle donne immigrate, in Animazione Sociale n° 4/2005

Quintavalle E., Il tutoring domiciliare. Prendersi cura di chi cura gli anziani, in Animazione Sociale n° 10/2005

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